Scrivere in triestino:

qualche riflessione, qualche proposta, qualche consiglio

 

È vero, fa un sacco di piacere il fatto che certi abbiano cominciato a scrivere in triestino; tuttavia, per dirla s'ceta, la cosa pone anche dei problemi. Il principale dei quali è: "come cavolo si fa a scrivere in dialetto??"

Chi ci ha provato sa che non è facile. Il dialetto per sua natura è una forma d'espressione verbale flessibile e infinitamente mutevole. Leggerlo stampato non è immediato: richiede la fatica di tradurre dapprima in suono le parole scritte, e poi quella di riascoltarsele cavandone un significato; per chi non ci avesse mai pensato, quando si legge normalmente invece le parole passano dritte dagli occhi all'intelletto (o, pei studiai, dalla corteccia visiva all'area di Wernicke) saltando la fase vocale.

Quanto a scriverlo, è un affaraccio.
Fortunatamente esistono dei precedenti illustri molto noti - parlo ad esempio di Carpinteri & Faraguna - che hanno avuto il coraggio di scrivere in dialetto anche nel periodo buio in cui iera sai poco fin. Dai loro lavori - i numeri della Cittadella, Le Maldobrìe, Serbidiòla, giusto per citarne alcuni fra i piú diffusi - possiamo trarre, oltre che il piacere di leggerli, anche una serie di regole orientative sul come tradurre in parola scritta quello che già siamo perfettamente in grado di dire a voce senza alcuno sforzo cosciente.
Sfortunatamente le opere citate non sono tantoin triestino quanto in un generico dialetto istro-dalmata di matrice veneta che si limita ad assomigliargli: chi in triestino usasse 'putei' per 'fioi' suonerebbe in certo modo 'foresto' come il padovano che dice 'tosi', e se a voce la cosa passa via veloce e quasi inosservata, per iscritto resta là a stridere. Quindi il loro esempio va seguito solo fin dove lo comanda il buon senso; sarà bene tuttavia ricordare che coloro che hanno tentato di definire rigorosamente il buon senso finora hanno fatto delle falope clamorose.

Come già osservato, ogni pretesa di regolamentare ed irreggimentare il dialetto sarebbe stolta, vana e controproducente. Qui però non si tratta di pontificare su come va parlato, si tratta di mettersi d'accordo su come scriverlo in maniera da capirsi l'un l'altro e - ove possibile - anche senza che quanto scrive uno paia troppo grottesco all'altro. Non regole, quindi, ma a malapena delle convenzioni orientative che ognuno è assolutamente libero (ci mancherebbe altro!) di infiorettare, di insaporire con variazioni sul tema e di mescolare a piacere col suo stile personale. Vediamole piú da vicino.

INDICE IPERTESTUALE VELOCE PER CHI HA FRETTA

 Fonetica e ortografia:

gli accenti
le consonanti doppie
la x
l'elisione
c oppure z?
sc e s'c
la c palatale
il gruppo gli-
il gruppo gn

 Sintassi e caveat:

pleonasmi
les faux amis
la consecutio temporum
i verbi ausiliari
le età dell'uomo e della donna
i lapsus piú frequenti
perifrasi e neologismi
toscaneggiamenti
il turpiloquio

 

FONETICA E ORTOGRAFIA

NOTA DI COLORE: per complicare un po' le cose, nel seguito gli esempi in dialetto appaiono in lilla, quelli in italiano in verde e i fonemi in rosso. Non che serva particolarmente alla comprensione del testo però fa sai bel vèder.

GLI ACCENTI: in italiano per convenzione l'accento acuto (á, é eccetera) denota una vocale chiusa, mentre quello grave (à, è eccetera) la specifica aperta. Ora, le vocali chiuse in triestino sono comuni circa quanto le vergini su una portaerei. Sarà quindi ragionevole usare nel dialetto scritto solo accenti gravi: perchè de sì, laddove il corretto italiano richiederebbe un "perché sí".
Quanto alla funzione tonica, sarà cortesia verso il lettore tener presente che - come si diceva - il dialetto è già abbastanza spinoso da leggere anche senza bisogno di lardellarlo di accenti: se la parola è tronca, o se l'accento risolve qualche ambiguità, o se semplifica la lettura di un termine insolito, allora va messo; se se ne può fare a meno, è carità cristiana risparmiarlo.

LE CONSONANTI DOPPIE: in triestino semplicemente non esistono, con grave costernazione di generazioni di maestri e maestre ("Ma quando vi imparerete a pronunziare le dopie come Idio comanda?!"). Di fatto la consonante doppia, in italiano come in tedesco, serve a render breve la pronuncia della vocale precedente ("la colla che côla giú per il collo", giusto per il piacere del brivido); e chi si provasse a usare vocali brevi parlando in triestino si sentirebbe ben presto apostrofare con un "Ma coss' te ga magnà el cul de la galina?"
Un tanto nel dialetto parlato. In quello scritto c'è un'eccezione, anzi una e mezza: la 'ss' e - talvolta ma non sempre - la 'zz'. Non che vadano pronunciate doppie, intendiamoci; si tratta di una mera convenzione ortografica. Coesistono infatti nel nostro dialetto la s dolce (o sonora, o ds) di
speso, sposa e casin, e la s aspra (o ts) di qualcossa, sbessola e missiar.
Non è un problema solo nostro, e ogni lingua lo risolve a modo suo: l'italiano a orecchio regione per regione, il tedesco con la famigerata 'scharfes Es' (ß, che poi non risolve un tubo, dal momento che continuano a sussistere "Straße" e "Gasse"), lo spagnolo eliminando tout court la s sonora, l'inglese usando (ogni tanto) la z per la ds, il francese scrivendo ç o ss la ts, le lingue slave con i loro praticissimi segni diacritici o con gli appositi caratteri cirillici. Il triestino se la cava onorevolmente scrivendo ss la s aspra davanti a vocale, se all'interno di una parola. Mentre all'inizio pare che la s, anche singola, non possa esser letta che aspra (
"Sempio che te son, ciama el sinter!"), con l'unica eccezione di "xe", che gode di una sua grafia privilegiata.
Davanti a consonante il problema non sussiste (
"Strafanìc de baba, la staghi zita! La xe pezo de un àspide!")... beh, quasi - fingiamo pure che non esistano parole come sdolzinà, per le quali sarà saggio affidarsi pietosamente alla consuetudine e al buon senso.
In fine di parola bisogna arrangiarsi:
el muss si trova quasi sempre scritto cosí, ma "te ga le man de cacabùs" è altrettanto frequente.
Quanto alla doppia z, è questione di gusti. Da noi è abbastanza raro il suono dz di
manzo o zaino, che comunque esiste; in casi del genere la z singola è de rigueur. Tuttavia tale suono non è abbastanza frequente da imporre la doppia in tutti gli altri casi in cui la pronuncia sz (quella di 'pozzo', per intenderci) costituisce la norma; troviamo quindi mazar, zena, pranzo e zervèl accanto a scovazze, paiazzo e brazzo, senza che - almeno a me - sia evidente una qualche differenza di pronuncia sia pur lieve. Va da sé che la doppia z sarà sempre obbligatoria dopo un furibondo colpo di claxon preceduto o seguito da stridio di freni con eventuale tonfo di lamiere.

LA X: si usa in unico caso, "xe" ("El xe propio mona, povereto!"). Circa l'origine di quest'usanza la mia sfera di cristallo tace; avanzo l'ipotesi provvisoria che essa origini dalla necessità di sceverare fra due termini ugualmente frequenti ("Chissà se la xe 'ncora viva?"). Naturalmente la x si usa anche nelle parole importate quali claxon, Bixio e (con rispetto parlando) Craxi.

L'ELISIONE: è terra di nessuno, pericolosa e piena di mine. Volta a volta, a seconda del tipo di dialetto che si vuol usare, bisognerà decidere se scrivere o no le sillabe che a voce ci mangiamo disinvoltamente, e al caso anche quante eliminarne, e se marcare l'eliminazione con l'apostrofo di rito. Sto complicando gli affari semplici? Magari. Secondo l'origine dell'autore, il tenore della frase, la popolarità del contesto, lo scopo dello scritto, le perturbazioni dell'orbita di Nettuno e la fase della luna si scriverà volta per volta gavudo, avudo, 'vudo, vudo,'vù,, vu' e vu. E non è che un esempio. Si trova scritto "coss che l vol", "cossa che el vol" e "coss' che'l vol" senza che né fede né ragione incoraggino l'una piú dell'altra. Un consiglio generico che come tutti i consigli generici vale il suo peso in bolle di sapone, è di evitare apostrofi inutili e di ottimizzare la già non facile leggibilità. A piú di tanto non arrivo.

C oppure Z? dipende dalla "signorilità" del dialetto in cui vogliamo scrivere. Nella pronuncia dialettale le c delle parole venete originarie virano con enorme facilità ad una z aspra e sibilata ("Andemo fora a zena?" - dove la zena spessissimo si pronuncia szena quando non, nella versione piú ordinaria, quasi ssena). Sarà bene ricordare comunque che mantenere l'antica c in molti casi porta la parola ad assimilarsi alla corrispondente "in lingua", conferendo a tutta la frase un deciso aroma di resentà.

SC e S'C: il russo ha un carattere tutto suo per la s'c (quella di s'ciopo e di s'ceto, per capirci). L'italiano semplicemente non ha il suono corrispondente. Il triestino ce l'ha, mentre manca del tutto il suono sc (la s palatale di 'scemo'). Conclusione logica: in triestino il gruppo sc si potrebbe utilizzare liberamente per rappresentare il suono s'c. Beh, la logica non è mai stata il punto di forza delle lingue: niente da fare, anche se da noi sc non esiste, maschio si scrive comunque mas'cio.
Parente prossimo del gruppo
S'C è il gruppo S'G, non frequentissimo e tuttavia presente in parole come "s'gionfo". Ancorché l'italiano, mancando del suono j francese, non si faccia complessi con la grafía di "sgelare", un minimo di coerenza richiederebbe da noi anche in questo caso l'uso di quell'inutilissimo apostrofo. Quanto poi sia importante la coerenza in circostanze come questa è questione d'opinione personale.
Per contro le sc delle parole "in lingua" virano abbastanza credibilmente a s in inizio di parola ed a ss all'interno di essa:
"secondo sienza e cossienza", "andemo a siar" e "go visto una bissa"; tuttavia difficilmente uno verrà appeso per i pollici per aver ceduto a tanti anni di scolarizzazione ed aver scritto "la citadela dela scienza" - tutt'al piú gli daranno bonariamente del resentador.

LA C PALATALE: quella di cesa e ciamàr. All'interno della parola non dà alcun problema, in fine parola è un dramma. "Xe un bel pastròc", "Xe un bel pastròch" oppure "Xe un bel pastròcc", o ancora "Xe un bel pastrotsch"? A me paiono abbastanza orrende tutte e quattro, ma con una pistola alla tempia sceglierei senza indugi la prima, per esclusione: nella seconda il gruppo ch mi fa venir voglia di pronunciarlo k all'italiana o ch aspirato alla tedesca; la terza (per ragioni non ben chiare) mi suggerisce una pronuncia regnicola da operetta, e la quarta - ancorché corretta secondo la fonetica d'oltralpe - mi pare semplicemente grottesca. Tuttavia quei lussignani e quei dalmati che hanno avuto la forza di resistere alla storpiatura apportata dallo Stato ai loro storici cognomi, se li sono visti comunque terminare in ch. Se mai chi mi legge riuscisse a proporre per ploc (come melma) una grafia immediatamente assimilabile, per carità si faccia avanti.

IL GRUPPO GLI-: in buon triestino non esiste. "No te son migliore de mi!" denota maggior acculturazione e disponibilità al dialogo rispetto al piú classico "Va in stramonaza!", ma al contempo rivela un preoccupante livello di resentadura. Detto per inciso, il triestino 'meio' o 'meo' è tanto avverbio quanto aggettivo, per cui un "No sta creder de esser meo de mi" è perfettamente corretto, anche se di dubbia efficacia in una rissa seria. Di solito per iscritto il gli- italiano vira a i o a li, quantunque la pronuncia rimanga piú o meno la stessa, una i leggermente palatale con una vaga rassomiglianza con la ll o la y spagnola. Tuttavia a molti scappa di scrivere in dialetto moglie per molie; chi è senza peccato scagli la prima pietra. E, per favore, che non sia non molto grossa.

IL GRUPPO GN: non è il caso di farsi complessi, non è frequentissimo ma c'è. Chi ne dubitasse vada in Carso a ordinarsi una de gnochi col sugo de rosto insieme a quel gnampolo de su nipote e a quela squinzia de su gnora. Pertanto chi in un raptus di dialettalità fosse tentato di scrivere iniorante ci pensi bene prima, perché la cosa potrebbe ritorcerglisi contro.
Però è bene abbandonare di bel subito l'illusione che non vi siano casi dubbi: leggendo qua e là si trovano
"gnente" e "gnanca" (oppure "gnanche") accanto a "niente" e "nianca" (oppure "nianche"), con le varianti "nanca" e "nanche" a complicare la vita; quale sia la grafia piú ortodossa non è ben accertabile, anche se personalmente preferisco quelle col gn, foneticamente piú plausibile e per di piú canonizzata dal Pinguentini.

 

 

alanz

 

PER CHI NON NE AVESSE ABBASTANZA, CONTINUA CON UN PO' DI SINTASSI